L’opera di Nino Maioli fra tradizione e innovazione

CRISTINA LANDUZZI

La varietà degli organici strumentali che l’opera di Nino Maioli propone va disegnando i tratti di un compositore estremamente duttile e sensibile alle sollecitazioni di un secolo musicale come quello novecentesco in cui i mutamenti del linguaggio musicale furono tanto profondi quanto importanti.

Analizzando i lavori del compositore ravennate si ha chiara la visione di un autore attento e fecondo, con una particolare attitudine a svelare ciò che le differenti compagini sonore possono offrire in quanto a varietà timbrica ed espressiva, e rispondendo a tali sollecitazioni con scelte formali e tematiche assai diverse.

La produzione relativa agli organici da camera propone interessanti spazi di ricerca: prendendo visione dei Sei piccoli pezzi per pianoforte ci si accosta a piccoli brani che hanno la freschezza di piccoli acquerelli dove la ricerca articolativa dello strumento vuole avere un preciso obiettivo di formazione strumentale. Sono eventi sonori che richiamano l’unitarietà gestuale degli studi di formazione, l’immediatezza di espressività richiesta a cicli formali rapidi e brucianti, leggerezza di scritture, anche virtuosistiche, che si offrono per esprimere con maestria la ricchezza timbrica dello strumento.

Nella Suite per pianoforte solo le prospettive dei “sei piccoli pezzi” sono pienamente confermate: ricerca armonica e gestuale come componenti forti della scrittura, e quest’ultima particolarmente varia e improntata a esaurire le tante possibili articolazioni tipicamente strumentali. L’armonia, nella sua limpida definizione tensiva, sorregge e potenzia le scelte di scrittura dello strumento, ponendo le basi di una solida costruzione progettuale.

In Serenata e A una miniatura antica sono infatti delineate con chiarezza le linee direttrici di una scuola compositiva di rilievo come quella di Cesare Nordio, estremamente attenta all’equilibrio della forma e al rigore operativo, caratteristiche peraltro molto forti nell’intera scuola bolognese di quegli anni. Stupisce la grande inventiva tematica e strutturale dei lavori citati poiché non riconducibili tout court alla scuola, bensì frutto di una ricerca linguistica piuttosto affascinante che richiama la fantasia timbrica di Respighi come alcuni tratti armonici di Pizzetti e Malipiero.

Risulta però alquanto ardua una collocazione storica più precisa dell’autore poiché le modalità di sviluppo formale di quei tratti linguistici che porterebbero Maioli a inserirsi all’interno del panorama della “generazione dell’Ottanta” in realtà si inverano in prospettive formali alquanto originali e molto interessanti sul piano del colore, della strumentazione e della costruzione architettonica.

Echi bartokiani risuonano nel Quartetto per archi, caratterizzandone la poetica. Le scelte di figura sono improntate a forti definizioni ritmiche, sovente organizzate in blocchi omoritmici di grande carica tensiva. In questo lavoro di Maioli sono evidenti alcuni spunti di ricerca sul ritmo e sulla sovrapposizione di talee fraseologiche differenti e contrastanti, che pongono le basi di quella che sarà la scrittura a fasce che tanti autori del Novecento hanno fatta propria. L’arcata formale generale si avvale di scelte sonore di forte definizione articolativa, organizzate a pannelli che richiamano il già citato Bartók, e un importante autore italiano da poco scomparso: Goffredo Petrassi.

Il Quartettino, sempre per archi, conferma la tendenza di Maioli a interpretare le formazioni cameristiche come ideali per la propria ricerca linguistica, e conferma anche l’interesse per la riflessione sul fraseggio e sulla ritmica con evidenti richiami alla produzione italiana di autori come Casella, giungendo con sempre maggiore chiarezza alla concretizzazione di eventi sonori ricercati sia ritmicamente sia timbricamente, conquiste linguistiche che per gli autori della post-avanguardia saranno estremamente importanti.

La produzione sinfonica disegna parabole altrettanto interessanti nonostante la tendenza a ripercorrere i tracciati del grande sinfonismo italiano di inizio secolo: spinte innovative sempre ben delineate sul piano timbrico inserite tuttavia in prospettive non totalmente nuove per quanto riguarda le loro interpretazioni formali.

In Allegro, Intermezzo e Allegro possiamo apprezzare la ricerca gestuale e armonica, inserite in articolazioni strumentali che la bruciante strategia formale ci restituisce in un lavoro brillante creativamente, e di notevole evidenza compositiva nell’alternanza di timbri ed eventi sonori netti, stagliati e tensivi.

Di notevolissimo impatto espressivo è Notturno sinfonico, sicuramente il lavoro più significativo e rappresentativo sul piano linguistico. Porta a compimento la lezione stravinskiana della Sagra della primavera, con grandi campiture tensive sorrette da una fortissima indagine sulle potenzialità della scrittura d’orchestra che richiamano lo studio debussiano dei “notturni per orchestra”, costruiti su eventi gestuali estremamente ricchi ritmicamente e polifonicamente. La ricchezza di questa partitura si associa dunque alla sua novità linguistica sorretta anche da scelte fatte sul piano armonico di grande ricchezza e ricercatezza espressiva.

Se Notturno sinfonico rappresenta un punto di riferimento per la scrittura dei grandi organici, l’impressione sinfonica Crepuscolo d’autunno ci dona con delicatezza di tinte una serie di immagini sonore improntate alla pura ricerca del colore strumentale. Il disegno solistico che vive delle trascolorazioni tra uno strumento e l’altro, anche se ambientati in un contesto orchestrale, è il tratto saliente di questo raffinato lavoro. Alla ricerca puramente timbrica non rinuncia un altro lavoro, Pastorale per orchestra da camera. La brevità dell’arcata formale che accomuna queste due opere rappresenta una testimonianza di come le nuove poetiche della seconda Scuola di Vienna evidentemente fossero conosciute anche in Italia, e dunque come la ricerca timbrica-formale di Anton Webern avesse affascinato anche i nostri autori.

Certamente il lirismo che contraddistingue gran parte delle tematiche di Nino Maioli ci ricorda che le influenze viennesi sul suo lavoro sono state molto filtrate, e come si ha occasione di constatare leggendone la produzione, qualsiasi scelta è ambientata in una prospettiva poetica dalla quale l’originalità del pensiero compositivo traspare costantemente, ma è di notevole importanza storica la consapevolezza che i sentieri comunicativi di mondi poetici così distanti hanno avuto modo di incrociarsi e di creare feconde fusioni intellettuali.

Nel Secondo concerto per pianoforte e orchestra la carica “energetica” della scrittura di Maioli e del materiale compositivo che lo compongono si esprimono in maniera piena nella scrittura dello strumento solista, che evidentemente è particolarmente congeniale all’autore. Il pianoforte è inoltre investito del compito di gestire le direttrici formali dell’opera attraverso la ricca tavolozza di figure, tematiche e soluzioni coloristiche delle quali Maioli fa un uso efficace formalmente e al contempo ricercato linguisticamente. All’interno del rapporto tra strumento e orchestra vi è una serrata dialettica di rimandi tematici, sempre guidata dal pianoforte che ne rappresenta il motore formale. Non si può evitare di sottolineare, anche in questo interessante lavoro, la ricerca sull’armonia, che possiamo a questo punto definire parametro caratterizzante del lavoro creativo di Maioli poiché appare come costante in tutta la produzione esaminata. La prospettiva specifica di questo lavoro, poi, è legata alla ricerca timbrica dell’orchestra che rende manifesto, in tal modo, un ulteriore canale di indagine costruttiva.

Non mancano spunti di riflessione osservando la produzione per il teatro dell’autore ravennate. La Musica per balletto si colloca nella prospettiva dei grandi balletti storici del Novecento, frutto delle riflessioni poetiche di Stravinskij e delle sue proficue collaborazioni con Diaghilev e i Ballets Russes. Troviamo forti analogie con la strutturazione drammaturgica di lavori come la Sagra della primavera o L’uccello di fuoco: contrapposizioni di pannelli differenti con tematiche e orchestrazione che restituiscono un’arcata formale compatta e continua, scrittura estremamente efficace nel costruire una “vicenda sonora” vivace e fantasiosa.

Nella Morte di Re Lear la raffinata ricerca timbrica sottolinea con atmosfere molto tese le pieghe emotive dei personaggi e della vicenda, atteggiamenti che richiamano le conquiste linguistiche dell’ultimo Verdi e che continuano ad accompagnare l’opera italiana del Novecento nelle strade tracciate da Dallapiccola. L’espressività delle linee vocali, orientata nella tradizione, vive poi all’interno di una scrittura orchestrale raffinata, efficace drammaturgicamente, e testimone della poetica viva e originale che Maioli conduce con impeccabile rigore formale.



Cristina Landuzzi è compositrice e docente di Fuga e Composizione al Conservatorio “G.B. Martini” di Bologna.

Questo articolo, apparso originariamente sul libretto di sala pubblicato in occasione del concerto “Ricordando Nino Maioli” (12 luglio 2005), è qui riprodotto per gentile concessione di Ravenna Festival.