Vivere, pensare, agire in arte, esprimersi in musica verso la metà del Novecento, che poteva significare, in Italia? Oltre che rapportarsi alla tristizia e nequizia di un secolo che per certi aspetti sembra ancora più buio del peggior Medioevo, significava dover dare ascolto a squilli, a clamori e ad appelli musicali diversissimi, colti ed europei, anzi centroeuropei, e non solo, anche transoceanici e variamente, complessamente etnici. Dunque significava appartenere a una generazione nel complesso poco fortunata, che aveva studiato e s’era formata allo stile del tardo Romanticismo, magari qua e là lievitata da spunti neoclassici, ed era costretta a prendere atto di movimenti disparati come il Simbolismo, il Verismo, l’Espressionismo, il Neoclassicismo con tecniche nuovissime come l’atonalità, la dodecafonia, l’alea, assistendo al più intransigente settorialismo o anche al più libero eclettismo stilistico. Il Verismo di Leoncavallo e Giordano era tramontato, oltre a Puccini (almeno fino alla scomparsa del 1924) operava la generazione dell’Ottanta (composta da Respighi, Pizzetti, Malipiero, Casella), quei due fari nazionali del momento che rispondono sempre ai nomi di Dallapiccola e Petrassi erano nel pieno della maturità artistica, i radicali innovatori degli anni Venti erano giovani in ascesa e si chiamavano Maderna, Togni, Nono, Berio, Donatoni (sopra tutti). Nato tre anni dopo Dallapiccola e Petrassi, destinato a morire dodici anni dopo Maderna e cinque anni prima di Nono, il nostro Nino Maioli ha vissuto una vita artistica apparentemente singolare, in realtà capace, per tutte queste ragioni, di presentarsi come segnale di una scelta inevitabilmente condivisa, perfettamente lecita e ragionata. A suo tempo, per ora una domanda.
Può, Il Tempio sotto le stelle che data al 1932 ed è frutto della creatività di un venticinquenne, figurare come modello, come campione della musica del maestro? Come lo può un’opera sola sì, perché, attesa la personalità estetica dell’autore, è musica strumentale e comunque molto eloquente, appartiene al genere pienamente romantico del poema sinfonico, si ispira a uno squisito descrittivismo impressionistico e simbolistico insieme, infine allude ad aristocratiche e rarefatte atmosfere antiche, classiche, forse meglio arcaiche. In seguito chiaramente dedicato a Ravenna e definito come “notturno sinfonico”, il poemetto si ispira in effetti al Mausoleo di Galla Placidia, in particolare ai suoi mosaici raffinati e allusivi, più in particolare a quella magica notte stellata, anzi “volta celeste” di notte che nel lontano V secolo l’arte bizantina approdata al grande porto adriatico volle così cangiante di blu, azzurro, beige e composta di tanti cerchietti equidistanti oppure concentrici disposti come elementi affini e quasi a mo’ di diversi gruppi di strumenti musicali affini.
Durante una decina di minuti, Il Tempio sotto le stelle vanta caratteri d’assieme chiari e omogenei in fatto di organico, movimento, forma, tematismo. Intanto s’avvale di un organico orchestrale piuttosto ricco che comprende anche l’arpa ma nel complesso classico-romantico, fatto di fiati a coppie (flauti con ottavino, quattro corni, tromboni con basso e tuba) e archi, al settore delle percussioni chiedendo oltre ai soliti timpani anche gran cassa e tam-tam/Cymbals. Poi ha un andamento ritmico molto elastico ma lascia emergere tre sezioni motorie complessivamente moderate (Lento, Andante, Lento), sfumanti l’una nella seguente e percorse da assidui cambiamenti di battuta. Infine non spicca di caratterizzazione tematica ma respira di imprevedibili alternanze, incroci, sovrapposizioni di disegni e frammenti brevi e suggestivi. Aprono i giochi gli archi gravi e i timpani all’unisono sul Mi bem. basso, per un Lento in 6/8 che dopo qualche sprazzo di altri archi e arpa affida ai fagotti quanto si può definire primo tema (4 battute in 6/8, una in 9/8, altre di nuovo in 6/8). I fiati acuti, già presenti all’inizio più per punteggiare che per cantare, non tardano a contribuire all’assieme “riempiendo” tutto per bene. Una battuta in 12/8 annuncia l’Andante, che dopo una battuta in 12/4 scivola in un 4/4 dapprima chiaro di fiati e silente di archi, dappoi volante, quasi, sull’acuto del primo violino accompagnato dall’arpa. La scrittura si rarefà e inspessisce, i primi violini s’abbassano e dialogano con i violoncelli, a tre diesis succedono cinque bemolli cui succedono ancora tre diesis, l’arpa sale e scende ma i flauti non sono da meno; e finalmente i timpani e gli archi gravi rimangono soli battendo e ribattendo una serie di Mi simile a quella iniziale ma alzata di mezzo tono al suono naturale. Ed è la volta del breve Lento finale, che prima fa contrappuntare tutti gli archi, poi lancia i primi violini in un “cantabile” che presto coinvolge oboi e corni e tutto l’organico in una sonorità sempre più forte verso la conclusione e d’improvviso, sull’ultima battuta, rassegnata a una sorta di alone ben più ricco di armonici che di volumi.
Mancando una sufficiente documentazione relativa, questa svelta lettura del lavoro è stata svolta sulla devota revisione musicale-orchestrale e realizzazione di Giancarlo Di Maria, che ha studiato, chiarito, integrato, suddiviso, precisato (di metronomo), infine trascritto partitamente il manoscritto originario. La realizzazione discografica merita un rilievo particolare, trattandosi di un’esecuzione prodotta interamente con l’uso di software e strumenti virtuali elettronici, che hanno permesso di ricreare le sonorità di un’orchestra sinfonica e di simulare la situazione d’ascolto di una sala da concerto.
E ora, per cogliere meglio il senso e il valore del Tempio sotto le stelle, si rende certo utile un breve schizzo sull’autore e sull’opera sua. Nato a Ravenna nel 1907, Nino Maioli ha studiato a Bologna: all’Università si è laureato in Giurisprudenza e al Liceo Musicale (poi Conservatorio “Giovan Battista Martini”) si è diplomato in pianoforte, composizione e direzione d’orchestra, frequentando la classe dell’allora direttore Cesare Nordio (che in un “esperimento orchestrale” diresse tre pezzi suoi nell’odierna Sala Bossi). Vincitore del premio “Rodolfo Ferrari”, ha frequentato i corsi di Casella della Chigiana e nel 1945, alla fine della guerra (nel ’44 aveva fatto parte del Comitato di Liberazione Nazionale), ha assunto la direzione dell’Istituto Musicale “Giuseppe Verdi” di Ravenna, ricevendone poi la nomina ufficiale e definitiva nel 1951. Negli anni Cinquanta ha continuato a suonare, dirigere, comporre, ma progressivamente diradando e sempre più concentrandosi sull’oneroso lavoro dirigenziale dell’istituto. Nel 1973 ha lasciato il servizio ed è morto nel 1985. Lungo, tenace, incontentabile è stato il lavoro di revisione e limatura svolto sulle opere sue (da affiancare alle elaborazioni per canto e pianoforte di diversi Canti del Risorgimento e Canti popolari e della resistenza), spia inequivocabile di una personalità molto spiccata e volitiva.
Ma un percorso vitale, professionale, interpretativo e creativo del genere non può non porre una domanda cruciale, ovvero chiedersi perché l’attività compositiva si sia fermata così relativamente presto. La domanda è lecita, la risposta diventa difficile, l’indagine rischia di essere, se non impertinente, almeno indiscreta. Alle carte rimaste (libri, documenti, fotografie, scritti, lettere), alle testimonianze dei famigliari, alle memorie di amici, conoscenti, colleghi, collaboratori, allievi spetteranno i diversi tasselli della ricostruzione. Storicamente, invece, non è irragionevole pensare subito a quei vertiginosi giri di vite, tanto nella vita e nella società quanto nell’arte e nella musica, che hanno determinato i conflitti mondiali, i regimi totalitari, i diversi modernismi quasi tutti ostili all’estetica romantica e al formalismo classico-romantico. Per un musicista di educazione tradizionale, dunque, il rifiuto, il silenzio, la rinuncia potevano rappresentare la soluzione migliore, specie se in precedenza il lavoro era stato compiuto e compiuto con ogni serietà e rigore. Occorre forse citare il gran rifiuto di Rossini, un secolo prima? Basti, piuttosto, ricordare il silenzio di Cilea, anteriore di una generazione: l’autore della squisita Adriana Lecouvreur visse dal 1866 al 1950, ma la penna del compositore militante l’aveva deposta nel 1907 (proprio mentre nasceva Nino Maioli) per confermarsi solerte docente e direttore del Conservatorio prima di Palermo e poi di Napoli.
Uno sguardo al resto del catalogo potrà sorreggere l’ipotesi. Al genere sinfonico Maioli ha dato parecchio: nel ’32, lo stesso anno del Tempio sotto le stelle, ha composto anche una Pastorale e un Crepuscolo d’autunno, e mentre ai soli archi ha dedicato una Sinfonietta, per un ensemble di tredici strumenti ha costruito una Serenata. Tre i concerti, due per pianoforte, il secondo conservato e il primo purtroppo perduto, e uno per violoncello. Più ricco, ovviamente, il pianismo puro, dove fra un capriccio, una fantasia (notturna), una suite, qualche canzonetta, diversi piccoli pezzi e una Piccola suite nello stile antico non manca la classicissima sonata: una sola, certo, ma affiancata da due sonatine una delle quali, ecco l’interessante novità, in stile dodecafonico. Dalla musica cameristica: fra l’altro una Sonata per trio nello stile classico (violino, violoncello, pianoforte), un Quartettino lillipuziano per fiati (flauto, oboe, clarinetto e fagotto), un quintetto d’archi intitolato A una miniatura antica. Odora di vaga tradizione lirico-salottiera il settore del canto accompagnato dal pianoforte, anche in virtù dei nomi poetici: ecco Convegno d’amore di Rilke e Nebbia di Pascoli. Scarso il settore teatrale, che oltre a qualche musica per balletto annovera un’imprevedibile Morte di Re Lear per basso, tenore, baritono, coro e orchestra (conservata solo in parte e per di più in riduzione pianistica): Lear, il duca di Kent, il duca d’Albany ed Edgardo sono i quattro personaggi e cantanti, in vistosa assenza delle tre figlie del re, anche della bravissima e troppo onesta Cordelia, a rendere vieppiù pietosa e dolorosa la morte dell’ex sovrano voluto da Shakespeare così stolido e autoritario. Scarso anche il canto a cappella, ma nonostante questo molto originale: oltre a due madrigali, ecco il Requiem per Alfredino, che rinunciando agli strumenti denuncia una speciale devozione a pratiche preclassiche, addirittura prebarocche. Del resto, se più d’una volta l’aggettivo “antico” partecipa ai titoli d’opera, altre volte il genere è specificato “piccolo” o al diminutivo o vezzeggiativo: bene, perché il gusto per il pezzo breve può essere moderno o comunque non proprio romantico né pienamente classico, quindi magari tardoromantico o classicistico, dicasi pure neoclassico.
Questo contributo di Piero Mioli, storico della musica, è stato scritto per la videointervista registrata nel giugno 2016 presso la Sala Bossi del Conservatorio “G.B. Martini” di Bologna.